Giorgia Catapano - Dipingere con gli occhi del jazz

Quando si giunge sul suo sito web, le notizie che la riguardano sono esigue. È nata a Taranto. Ha scelto Roma come città adottiva. Ha studiato disegno e pittura alla Rome University of Fine Arts, e lì frequenta la Scuola Libera del Nudo con Fabrizio Dell’Arno. Dipinge perlopiù i volti dei grandi del Jazz e spesso va ad ascoltare i concerti, disegnando dal vero i musicisti.

Tutto questo però non poteva bastare. Sicché, in occasione di una sua mostra, intitolata “Jazz Eyes” e andata in scena presso la Micro Visioni di Roma dal 1° all'8 aprile 2016, le feci un’intervista. Durante quella chiacchierata, vidi dal vivo le sue opere, e pensai che dipingesse con gli occhi del jazz, come faceva intuire il titolo dato al vernissage, e che sarebbe stato interessante raccontare qualcosa di più, e più in profondità, dell’animo di questa artista.

Una delle tue ultime personali si intitolava "Swingin' Souls": cos'è lo swing per te e come riesci ad applicarlo alla pittura creando "anime swinganti"?

“Lo swing è la pronuncia che caratterizza il jazz. Si sente subito se chi suona lo ha o non lo ha: basta aprire le orecchie, ascoltare e si capisce all’istante. È lo stare sul tempo, tirando indietro e creando una distensione del tempo e un’anticipazione. Chi suona con swing crea il tempo, se ne appropria. In pittura accade lo stesso quando decido inconsciamente il ritmo di un dipinto. Ho iniziato a lavorare con i segni in verticale, e questo dà swing a tutto il dipinto, introducendo un elemento astratto. Poi ho lavorato sulla dissoluzione del segno, e si vede che in ‘Bird’ c'è una striscia pittorica color ocra decisa, mentre in ‘John Coltrane’ si mischia al fondo e in ‘Ornette Coleman’ diventa qualcos’altro andando nella direzione più libera del suono [Le opere citate nell’articolo sono visibili sul sito www.giorgiacatapano.com, ndr].

Usi varie tecniche, come i musicisti polistrumentisti: mantenendo il paragone, fra acrilico, olio e pastelli, qual è il più malleabile per "swingare dipingendo"?

“Sì, quando dipingo i volti di chi suona jazz, non uso mai una tecnica sola: ho bisogno di utilizzare più mezzi per creare ciò che si avvicina alla complessità dell'animo di chi dipingo e alla complessità della musica. Ogni volto è nato dalla musica di chi stavo ritraendo. Per dipingere Monk ascoltavo Monk, per dipingere Coltrane ascoltavo Coltrane: mi metto sonoramente in contatto con loro. Tornando alle tecniche, credo siano ininfluenti. Non è la tecnica a essere importante, è il gesto pittorico. A unire chi suona e chi dipinge sono le mani. Chiunque suoni lo fa tramite le mani, così come chi dipinge. Mi è capitato di dipingere direttamente con le mani, senza usare pennello o spatola, è più semplice e diretto. Per questo mi piacciono i pastelli a olio, perché non c'è un tramite tra il colore e il supporto e ci si avvicina di più al senso della scultura”.

Come scegli i personaggi da ritrarre? Ossia che rapporto intercorre fra te e i vari Billie Holiday, Monk, Coltrane e gli altri jazzisti che costellano le tue tele?

“La cosa che mi ha sempre guidata è il gusto. Non riuscirei a dipingere un musicista che non mi piace o non catturi il mio ascolto. Ho una preferenza per il bebop e l'hardbop, mi sento vicina a quel linguaggio in cui c'è una sorpresa a ogni nota e un modo di creare il suono che ha dell'incredibile. I musicisti che più ascolto e ho ascoltato sono Billie Holiday e Monk. Coltrane invece non lo capivo, non riuscivo a capirne il suono, poi un giorno ho sentito ‘In a Sentimental Mood’ suonata da lui e non ci ho capito più niente. Forse l'avevo già ascoltata, ma quel giorno compresi che era un musicista che arrivava a una spiritualità commovente. Credo che il rapporto che intercorre con loro sia quello dell'emozione e dello stupore, e mi sento a casa quando li ascolto”.

Come e quando hai scoperto il jazz e cosa ti ha attratto di quella musica?

“È stato un percorso buffo: prima di ascoltare il jazz ascoltavo molto i Cure. In un loro brano che si chiama ‘Lovesong’ c'era una frase: fly me to the moon. Da lì ho ascoltato Frank Sinatra. Poi una sera mi sono trovata per caso in una jam session senza sapere cosa fosse. E non riuscivo più ad andarmene. Sentii di aver incontrato la musica che avrei voluto ascoltare per sempre”.

Oltre allo swing, quali altre tipicità del jazz senti di trasporre nella tua pittura?

“La serietà e il rispetto. Come anche la profondità. Il jazz vive sul rispetto dei grandi, sulle cui spalle si può salire, vedere meglio e fare qualcosa di nuovo. Anche in pittura per me è così. Ho appese, dove dipingo, le fotografie di due Maestri: Amedeo Modigliani e Claude Monet. Ogni volta che finisco un dipinto li guardo, e se reggo il loro sguardo, allora non ho fatto niente di male”.

Come hai cominciato a interessarti alla pittura e in che modo hai approfondito tale interesse, fino a fonderlo con quello per il jazz?

“Dipingo da quando ero una bambina. Invece di giocare, dipingevo, e non so se dipingo perché sono solitaria o sono solitaria perché dipingo, in ogni caso le due cose vanno bene insieme. Mio nonno dipingeva per passione e lo faceva con grande serietà. Lui ascoltava la musica classica e le operette, e le faceva ascoltare anche a me che gli stavo vicino mentre dipingeva. Anche mia madre dipingeva, ma nessuno di loro ha avuto la possibilità di studiare e quindi di sentirsi sicuro esponendosi al giudizio degli altri. Io invece ho sentito che dovevo approfondire questa propensione che mi era stata regalata. Studiare e confrontarsi con altri artisti è la cosa che più conta, oltre l'esercizio quotidiano. L'incontro tra pittura e jazz è accaduto una sera: stavo ascoltando la musica di Miles Davis e guardando una sua fotografia mi è venuto il desiderio di dipingerlo. Mi ha sorpresa molto la facilità con cui veniva fuori la sua espressione. Poi ci ho preso gusto e per un lungo periodo non facevo altro che dipingere i volti, per me stranamente famigliari, dei grandi jazzisti”.

Ti piace disegnarlo ma anche ascoltarlo, il jazz, e spesso nelle tue mostre le due cose si fondono: come scegli quello più adatto a presentare le tue opere?

“Scelgo quello che mi piace ascoltare, e fortunatamente a Roma ci sono tanti bravi musicisti. In una mia mostra al Punto Einaudi Merulana hanno suonato Humberto Amèsquita, bravissimo trombonista, Andrea Molinari, che ha inciso un disco bellissimo, e Francesco Fratini, trombettista straordinario. Sono stati generosi nel suonare e mi piaceva molto che lo facessero in mezzo alle mie opere e ai libri. È un modo per comunicare, alla gente che osserva i miei dipinti sui musicisti del passato, che il jazz è una cosa che ha a che fare col presente. L'idea di un intervento musicale è nata chiacchierando con Andrea alla fine di un concerto. Poi ho chiamato Humberto che è un amico e Andrea ha chiamato Francesco. Dovevano suonare solo qualche brano, ma mi hanno sorpresa con un intero concerto: io, i miei dipinti e il pubblico eravamo felici”.

Tu però vai anche oltre, realizzando "schizzi jazz dal vivo": durante i concerti che frequenti, sei più ispirata da ciò che vedi o da ciò che senti?

“Tutto nasce dall'ascolto. Le fotografie mi servono per avere le coordinate del volto. Cerco sicuramente una somiglianza ma principalmente un'essenza. Come quando conosci qualcuno: non ti resta impresso un dettaglio ma la sua essenza. Non ricordo se ho iniziato prima a dipingere o a disegnare dal vero il jazz: ora però non riesco più ad ascoltare un concerto senza l'urgenza di disegnare chi suona. Sono ispirata dal modo di suonare e dalla luce, dalle forme che si creano durante l’esecuzione dal vivo. Disegnare ai concerti poi è una cosa strana e magica, perché intorno sparisce tutto e mi concentro solo sul suono, sulla luce di chi suona e sul ritmo musicale che cerco di seguire col tratto. Ho dei bei ricordi, specie di alcuni concerti, ma mi piacerebbe prima o poi andare in qualche jazz club a New York e disegnare ciò che succede lì”.

Noi glielo auguriamo. Nel frattempo, se vi capita, andate a vedervi qualche sua mostra. Il suo sguardo pittorico sul jazz conquisterà anche voi.

Marco Maimeri

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