Enrico Rava – Edizione Speciale (2021)

“Se bisogna festeggiare, che si festeggi bene e in grande stile, con una bella Edizione Speciale”. Questo devono essersi detti Enrico Rava, alla soglia degli 80 anni, e Manfred Eicher, alla soglia, con la sua etichetta, dei 50 anni di carriera della ECM.

E così nel lontano 2019 – “lontano” sì, a.C.ante Covid, quando si potevano ancora fare concerti dal vivo e non indossare mascherine né sul palco né in platea – decisero di registrare questo live, al Jazz Middelheim di Anversa, Belgio, in cui il nostro più importante jazzista, trombettista e flicornista, figura chiave del jazz europeo, e mentore per generazioni di jazzisti italiani, accompagnato dal suo attuale quartetto, Francesco Diodati alla chitarra, Gabriele Evangelista al contrabbasso e Enrico Morello alla batteria, e con ospiti Francesco Bearzatti al sax tenore e Giovanni Guidi al pianoforte, regalò al pubblico presente – stipato, ripeto, uno accanto all’altro, senza posti intermedi lasciati liberi, e senza mascherine d’ordinanza sul viso – un repertorio che includeva materiale dagli album ECM “Enrico Rava Quartet” (1978) [The Fearless Five] e “Wild Dance” (2015) [Infant, Wild Dance, Diva], da “Noir” (Label Bleu 1996) [Theme for Jessica Tatum, Diva]da “Rava plays Rava” con Stefano Bollani (Philology 1999) [Le solite cose], oltre a Once Upon a Summertime, versione inglese de La valse des lilas, di Michel Legrand, e Quizás, Quizás, Quizás, nota canzone cubana, di Osvaldo Farrés.

 

La prima cosa che si coglie, ascoltando il disco in esame, è l’affiatamento, l’interplay, con cui questa giovane squadra di improvvisatori, scelti cresciuti e guidati da Rava, suona la sua musica, con sacro fuoco e grande slancio, tenendo insieme conoscenza rispetto e aggiornamento della tradizione, un’inesauribile, estroversa ed estrosa, vena melodica, nonché sfruttando al meglio lo spazio lasciato libero dalle ampie forme musicali e dalla conduzione generosa e confidente del leader. Sia quando rivisita e dà nuova linfa a pezzi singoli quali InfantWild Dance, The Fearless Five, Quizás, Quizás, Quizás, sia quando propone e crea ex novo medley di brani dualicome Once Upon a Summertime/Theme for Jessica Tatum e Le solite cose/Diva.

 

Infant si apre col flicorno dell’autore che volteggia nell’aere per poi presentare un tema che non avrebbe sfigurato nel repertorio dei primi gruppi di Ornette Coleman con Don Cherry, qui “personificati” da Bearzatti, al sax tenore però – una rarità per l’altista americano – e Rava – né alla cornetta né alla pocket trumpet ma comunque a un ottone –, che lo dettano all’unisono su un tappeto scoppiettante e ribollente del duo Evangelista-Morello, basso e batteria. L’entrata della chitarra di Diodati produce un’esplosione di suoni e coloriture rock, che richiamano – volendo proseguire sul medesimo paragone – il terzo periodo di Coleman, quello "free funk", mentre l’arrembante e torrentizio intervento del pianista Guidi porta ancora da un’altra parte. È fantastico come nel jazz del Nostro si attraversino mondi diversi all’interno dello stesso pezzo: caratteristica che appartiene (ormai) soltanto ai grandi di questa musica. I soli sono un’ulteriore occasione per essere trasportati nei differenti universi sonori e interpretativi dei vari strumentisti coinvolti, e lo sono tutti, nessuno escluso, ognuno fa il suo assolo – altra rarità ormai – affabulando e cambiando quindi visione prospettica al paesaggio musicale che si sta guardando e ascoltando.

 

Once Upon a Summertime, pur mantenendo una allure cangiante e poetica, si svincola pian piano dal ricordo delle sue due versioni più note per tromba, quella di Miles Davis/Gil Evans su “Quiet Nights” (Columbia 1963) e di Chet Baker sull’eponimo Fantasy del 1980, grazie alle intenzioni mutevoli del gruppo, e a un pianoforte, gocciolante e tellurico, che “scava la roccia”, “smuove la terra”, e incanala la ballad originaria verso atmosfere sempre più aperte e burrascose, splendidamente convergenti poi in Theme for Jessica Tatum, brano altrettanto bizzoso e ondivago, che dà a tutti i partecipanti la possibilità di dire la loro, in un florilegio di improvvisazioni incisive e suadenti.

 

Wild Dance propone movimenti fluttuanti, da “danza selvaggia” appunto, da parte del fluido pianoforte di Guidi, dell’arioso flicorno del leader, del tagliente sax di Bearzatti, su un tappeto puntellato e umorale di basso e batteria, Evangelista e Morello, con tutti loro che lasciano poi la scena alla “danza solitaria” della chitarra distorta e apocalittica di Diodati, cui si affianca l’ottone del “sopravvissuto” Rava, ormai impersonale e freddo, per condurre l’ascoltatore, e la band intera, verso The Fearless Five, composizione dei tempi d'oro del Quartet di Enrico col compianto trombonista Roswell Rudd, anche in questa trasposizione live caratterizzata da persistenti e profonde radici dixieland, traballanti ritmi sghembi à la Thelonious Monk, o anche à la Charles Mingus, e la consueta ricerca costante, a cura di ciascuno, di sempre nuove e ulteriori possibilità per manifestare la propria libertà espressiva.

 

Le Solite Cose/Diva rappresenta l’innesto fra due pezzi: il primo, celebre per la versione in duo con Bollani al piano, qui “sostituito” dall’altrettanto discorsivo e dialogante sax di Bearzatti; il secondo, per nascere “Noir” come Theme for Jessica Tatum ma poi essere riproposto in varie occasioni, fra cui il già citato “Wild Dance”, brillando ogni volta di luce inconsueta e straniante. Questa non fa eccezione, e permette nuovamente a tutti i musicisti di prodigarsi in improvvisazioni lunghe e dialettiche.

 

Finale affidato al popolare brano cubano Quizás, Quizás, Quizás, già trattato in precedenza da Guidi sul proprio album ECM “This is the Day” del 2015, ma qui completamente rivisto, sia da Giovanni stesso nell’intro sia poi dal resto della comitiva guidata da Rava, in chiave carnevalesca, utilizzandone il groove latino-sincopato come pretesto di chiusura concerto e disco, nonché vero e proprio trampolino di lancio per ilari e suggestivi assoli da parte di ognuno dei membri della compagine. Ma questo, come detto, con Enrico non è una novità: con lui si può ancora fare, e ascoltare, jazz “alla vecchia maniera”, come faceva il capostipite di ogni jazzista, Louis Armstrong, il quale narrano le cronache avrebbe sostenuto fosse una musica che non si potesse insegnare, ma in realtà, suonandolo, lo ha fatto ampiamente imparare.

 

 

Marco Maimeri

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