Mike Stern – Trip (2017)

Questa è la storia di una rinascita. Di una resurrezione, potremmo dire, senza cadere nel blasfemo. “(Ri)alzati e cammina” è il messaggio che trapela da questo Cd. Il messaggio che ha voluto lanciare il chitarrista americano Mike Stern realizzando questo progetto discografico. L’ennesimo, direbbe qualcuno. Eppure la sua carriera poteva interrompersi bruscamente e questo album per l'etichetta Heads Up International non venire mai alla luce.

È il 3 luglio del 2016. Stern doveva partire per un tour. Su una strada vicino casa, a New York, cade e si frattura entrambe le braccia. Queste si risanano, il problema è una lesione permanente alla mano destra. Non certo una bella notizia per un chitarrista. Dopo un paio di interventi ancora usa la colla per impugnare il plettro ma finalmente può tornare a fare musica. “Nella vita – scrive nel libretto interno – ci sono momenti belli e momenti brutti, una gran quantità di alti e bassi, emotivi e fisici, spesso allo stesso tempo. Ma se c'è una cosa che ho imparato è che, anche se sei giù, anche se a volte sembra impossibile, devi cercare di rialzarti e andare avanti nel miglior modo possibile”.

 

È con questo spirito che, ringraziando amici e parenti, soprattutto la moglie Leni e i musicisti di questa registrazione, nonché le tante persone che, pur non conoscendolo personalmente, gli hanno scritto e lo hanno incoraggiato ad andare avanti, è rientrato in studio e ha sfornato l’ennesimo bell’album. Perché da questo punto di vista Stern, non a caso chitarrista di Miles Davis negli anni Ottanta, è una sicurezza: compone bei pezzi e li suona coi migliori.

 

“Trip” – proprio a riprendere il concetto della vita come “viaggio” fatto di momenti belli e momenti brutti, alti e bassi – non fa eccezione. Al suo fianco, amici sì, ma soprattutto musicisti fantastici, come Randy Brecker e Wallace Roney alla tromba, Bob Franceschini e Bill Evans al sax tenore, Jim Beard a tastiere, piano, organo Hammond, Victor Wooten, Tom Kennedy Teymur Phell e Edmond Gilmore al basso, Dennis Chambers, Lenny White, Will Calhoun e Dave Weckl alla batteria, Arto Tuncboyaciyan e Elhadji Alioune Faye alle percussioni, oltre che Gio Moretti alla voce e Leni Stern al ngoni.

 

E non manca neanche un certo senso dell’umorismo al chitarrista che, fra le varie composizioni del disco, tutte proprie, oltre al brano eponimo, quasi a voler ribadire quanto sia stato un “viaggio” superare quel pesante infortunio e realizzare questo progetto, spiccano anche Screws (probabile riferimento alle viti post-operatorie) e Scotch Tape and Glue (scotch e colla, metodo con cui ha impugnato il plettro durante la registrazione). Ma ironia a parte, è tutto l’album a essere energico e grintoso.

 

Si parte con Trip, un bel funkettone con linee di chitarra e sax (Franceschini) che si intrecciano convulsamente su un tappeto di tastiere e una ritmica solida e compatta, seguito da Blueprint dove in un’atmosfera molto davisiana a ergersi è la tromba di Brecker, melliflua e cristallina, nonché la chitarra del leader, languida e ammiccante. In generale, quello che si ha per le mani è un Cd che ti riconcilia con la fusion, quel genere particolare che intreccia jazz, rock, funk e tanto altro, in un crogiuolo sonoro senza tempo ormai, ma qui fatto ancora con tutti i crismi più autentici. Come testimoniato pure da Half Crazy, dove Evans al sax tenore e altri cambi in formazione non mutano, anzi arricchiscono la sostanza di una musica composta e suonata ad alti livelli.

 

Screws è anch’esso molto davisiano, alla tromba stavolta c’è Roney, ma il groove resta sempre lo stesso, estremamente personale e in linea con l’estetica di Stern: una massa sonora grumosa da cui emergono interventi pregevoli, come viti appunto da un braccio in via di cicatrizzazione. Più delicata e rarefatta la composizione Gone, con il nostro alla chitarra acustica e un trio piano-bassoacustico-batteria sottile e carezzevole.

 

Whatchacallit ci fa tornare a ritmi funky e linee post-bop, con gran dinamicità ed equilibrio. Come in molte parti del disco, specie quelle soliste, non sembra proprio che il leader sia reduce da due operazioni, e meno male: abbiamo ancora bisogno di musica così battagliera. Al pari di fusioni come Emilia, dove l’Africa del ngoni – strumento a corde malese – della moglie Leni si intreccia con le voci della Moretti e dello stesso chitarrista, su un manto di tastiere, contrabbasso e percussioni.

 

La speranza – di poter tornare a suonare, immaginiamo – si concretizza pienamente in Hope For That, pezzo fresco e vitale, con euforici e arrembanti intrecci fra ritmica, chitarra e tastiere, mentre I Believe You testimonia probabilmente quanto Stern e moglie avessero fiducia e credessero in questo obiettivo: tenero e affettuoso il dialogo fra la chitarra del primo e il ngoni della seconda, su tappeto speziato di basso e batteria, con Beard presente efficacemente tanto al piano quanto all’organo Hammond.


Scotch Tape and Glue è forse il brano più jazzistico dell’album, con Evans al tenore e il leader alla chitarra, entrambi in grande spolvero e svettanti nei confronti della sempre pulsante e spiritata ritmica piano-basso-batteria, qui più percussioni, con cui si concedono anche scambi belli intensi. Infine, B Train, in cui il post-bop continua a farla da padrone, grazie soprattutto agli interventi della chitarra di Stern, della tromba di Rooney e del pianoforte di Beard, chiudendo così in bellezza un progetto di rinascita e risurrezione dalle ceneri della vita, con tanti viaggi, trips, ancora da progettare e intraprendere.

 

 

Marco Maimeri

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